Se Scott Fitzgerald vivesse oggi
- Gerardo Fortino
- 24 mar
- Tempo di lettura: 2 min

Tra filtri digitali e vecchi sogni: l’eterna magia di Scott Fitzgerald
Immaginatevi Scott Fitzgerald che appare improvvisamente nel nostro mondo, come se fosse caduto da una breccia temporale, un po’ come quando, in “Midnight in Paris”, l’assurdo diventa parte del quotidiano. Solo che stavolta non è una passeggiata notturna in una Parigi d’altri tempi, ma un incontro bizzarro in una grande metropoli piena di schermi luminosi e gente che corre in ogni direzione, inseguendo obiettivi che né lui né, a volte, noi stessi riusciamo a capire fino in fondo.
Lui, abituato ai suoni lontani di Charleston e ai torbidi eccessi dell’età del Jazz, si troverebbe a scrivere frasi disperatamente poetiche su uno smartphone ultimo modello che si surriscalda dopo venti minuti. Gli verrebbe voglia di sedersi in un bar per osservare la gente – ma lo immagino sconcertato di fronte ai selfie, ai filtri, alle storie Instagram, e tutto quel desiderio spasmodico di fissare la propria immagine in un attimo di eterno che eterno non è mai.
Chissà, magari si metterebbe a rivisitare il suo “grande Gatsby” dentro un loft di Brooklyn, con i murales alle pareti e la musica trap che rimbomba dagli auricolari di qualche ventenne. Si chiederebbe dove sia finita la dolcezza impacciata dello sguardo diretto, ora sostituita da cuoricini e faccine digitali. E probabilmente farebbe un sospiro, con quello sguardo un po’ malinconico che si concede chi, in fondo, ha sempre creduto in un’idea di romanticismo difficile da realizzare.
Ma sono certo che, come in ogni epoca, anche in questa riuscirebbe a trovare la sua nicchia di sogno: una sera, forse, si ritirerebbe in un piccolo jazz club, uno di quei posti sperduti nel caos urbano dove la luce è soffusa e le note di un sax incantano l’aria. E lì, sentendosi finalmente a casa, scriverebbe di un senso di speranza un po’ amara, tipica di chi conosce il fascino dell’illusione. Magari rivedendo, nelle vite frenetiche dei giovani artisti seduti ai tavoli, un barlume di quell’energia luminosa che tanto aveva amato nei saloni sfavillanti della sua epoca.
In fondo, Fitzgerald ha sempre saputo flirtare con lo spirito dei tempi, oscillando tra un lucido disincanto e la più ardente delle speranze. Forse alla fine, dopo essersi lamentato un po’ dei troppi grattacieli, dei troppi hashtag e dei troppi caffè americani annacquati, prenderebbe il taccuino – o forse un tablet, chi lo sa – e comincerebbe a scrivere un nuovo romanzo. E noi, come spettatori dentro una magia alla Woody Allen, lo osserveremmo incantati, chiedendoci se in fondo le cose, più che cambiare, non si ripetano solo in un ciclo bizzarro di nostalgia e desiderio di futuro. E magari, mentre riflettiamo, anche noi ci sentiremmo parte di una storia che in qualche modo appartiene a tutte le epoche.
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